Le neuroscienze svelano il segreto dell’ipnosi
L’infezione da candida può portare alla depressione
Dimmi come cammini e ti dirò chi sei
Sei romantico o farfallone? Te lo si legge in faccia
Una bella faccia é come una droga
Il tuo bacio é come un rock: baciare non é universale, ma nasce da una spinta biologica
Il linguaggio del corpo del flirt
Gli occhi specchio dell’anima
Fare dell’arte allevia lo stress e migliora l’umore
Intelligenza corporea: toccare qualcosa di ruvido ci rende più empatici
Se un uomo inciampa davanti a noi e ci viene d’istinto aiutarlo o chiedergli se si é fatto male sperimentiamo un impulso tipicamente umano (anche se viene, in parte condivisa dagli altri animali, perfino dai topi): l’empatia.
Non la possediamo tutti nella stessa misura e nello stesso modo. Lo psicologo Mark Davis, infatti, ha distinto tre tipi diversi di empatia.
La prima, conosciuta come “cognitiva” implica il fatto di vedere le cose della prospettiva dell’altro, ma senza esserne coinvolti.
Un secondo tipo di empatia, da “immedesimazione”, comporta percepire l’emozione di una persona e viverla come se fosse propria: é un fenomeno che é definitivo anche “contagio emotivo” e indica il fatto di assorbire lo stato d’animo dell’altro ed é svantaggioso per chi é troppo sensibile perché soffre per le pene altrui.
L’ultimo tipo di empatia é quella “compassionevole”: qui non solo si vive lo stato d’animo o il dolore dell’altro, ma si agisce per cercare di essere di conforto o di aiuto verso l’altra persona.
Sviluppare l’empatia, non é solo un modo per diventare “buoni samaritani”, ma fornisce numerosi vantaggi sul piano interpersonale: chi sa mettersi nei panni degli altri, ha una maggiore influenza sulle persone, sa dire le cose giuste al momento giusto, sa fare gruppo e migliora la nostra abilità nelle trattative e nell’istaurare e mantenere una relazione.
Al riguardo, é singolare il dato emerso in uno studio svolto dai ricercatori David Rakel, Bruce Barrett e Zhengjun Zhang, assieme ad altri colleghi su un campione di 719 pazienti ammalati di raffreddore.
L’indagine ha, infatti, messo in risalto che, quando un medico mostra di comprendere il disagio o l’insofferenza verso i sintomi da parte dell’assistito, quest’ultimo sente di essere in buone mani, la malattia dura meno, é vissuta con più tolleranza e, perfino, il suo sistema immunitario ne risulta rafforzato.
Naturalmente, molta di questa sensibilità nasce da doti innata, da clima familiare in cui siamo vissuti o dal fatto di aver vissuto sulla nostra pelle esperienze emotive piuttosto forti; tuttavia, almeno in parte é una capacità che si può migliorare.
Ad esempio, gli psicologi David Comer Kidd e Emanuele Castano hanno scoperto che leggere opere letterarie di spessore, a confronto con romanzi popolari aumenta l’empatia: verosimilmente, perché gli autori di queste storie prestano una maggiore attenzione alla psicologia dei personaggi e quindi il lettore é portato a immedesimarsi con più facilità in essi.
Gli esiti di questa indagine trovano conferma in una ricerca condotta dal ricercatore Keith Oatley. Nel suo esperimento erano stati coinvolti 166 partecipanti; metò di loro avevano il compito di leggere un racconto di Chechov; l’altra metà, invece, vedeva la stessa vicenda narrata in ducumentario.
Bene, alla resa dei conti, chi aveva letto lo scritto aveva dimostrato di comprendere decisamente più a fondo le emozioni, le intenzioni e il modo di pensare dei personaggi della storia rispetto a chi li vedeva sullo schermo.
Uno degli spunti più originali per accrescere il senso d’empatia é stato messo a punto dagli psicologi Chen Wang, Rui Zhu e Todd Handy: la loro ipotesi era che toccare qualcosa di ruvido potesse rendere le persone più sensibili ai valori umani.
Questa supposizione, all’apparenza stravangante, si basa su un una nuova corrente della psicologia che prende il nome di “Intelligenza Corporea” o “cognizione incarnata”.
Basata su un’intuizione del filosofo George Lakoff, questo filone di pensiero ha dimostrato, con ormai oltre un centinaio di studi alle spalle, che le sensazioni fisiche possono influenzare il nostro pensiero, i nostri atteggiamenti e le emozioni.
Per verificare la loro idea, Wang e colleghi hanno coinvolto 77 volontari con il pretesto di una indagine di marketing: scopo apparente dell’indagine era valutare l’effetto della pastosità di un detergente per le mani.
In un caso, era cremoso; in un’altro conteneva dei micro-granuli, simili allo scrub. Tutti i volontari sono stati invitati a lavarsi accuratamente le mani per 20 secondi e indicare, poi, l’effetto del sapone e la misura in cui lo giudicavano valido come detergente.
Dalle risposte, si é così potuto appurare che chi si era lavato con il prodotto granuloso sentiva i palmi più ruvidi.
Successivamente, i volontari erano stati informati che, quando il prodotto fosse stato immesso sul mercato, una percentuale sulle vendite sarebbe andata in beneficienza: premesso questo, veniva chiesto loro in che misura stabilire l’ammontare dell’elargizione.
Esaminando i risultati, i ricercatori hanno così appurato che chi aveva avuto esperienza con “l’asperità” si dimostrava più generoso; fasi successive dello studio hanno dato prova che lo stesso protocollo sperimentale (lavarsi con una sapone liquido granuloso invece che morbido), induceva i partecipanti ad essere più ben disposti a dare una mano ai propri compagni nello svolgimento di un compito e a mostrarsi più disponibili a prendere parte ad ulteriori studi svolti dagli stessi studiosi.
Un’ulteriore passagggio dell’esperimento partiva da recenti ricerche nel campo delle neuroscienze, che hanno dato prova che per provare un senso di compassione sono necessari due processi.
Per prima cosa, una sorta di riflessione automatica interna del disagio fisico o psicologico di cui sono responsabili i neuroni specchio (cellule cerebrali la cui specifica funzione é riprodurre il comportamento esteriore di qualcuno della stessa specie); poi, una presa di coscienza della sofferenza dell’altro.
Per queste ragioni, i ricercatori hanno registrato l’attività cerebrale dei partecipanti mentre vedevano delle scene in cui i protagonisti facevano delle azioni, come tagliare della verdura: in alcune, tutto filava liscio; in altre si facevano male.
I ricercatori si aspettavano che la reazione alle scene cruente fosse più lenta rispetto a quelle neutre. Non é stato così, ma il fatto di avere la mano a contatto con la carta ruvida faceva percepire come più dolorose le immagini “crude”, cioé li ha resi più compassionevoli.
L’ultimo disegno sperimentale aveva lo scopo di fare un verifica sul “campo” dell’effetto della ruvidezza. Per accertare se quanto emerso in laboratorio valesse anche nella vita reale, i ricercatori hanno messo un banchetto su un marciapiede e hanno chiesto ai passanti di fare una donazione per un’associazione benefica.
Per approfondire |
Prima di chiedere l’offerta, chi veniva fermato era invitato a compilare un questionario posto sopra un portablocco: in un caso, la superficie del supporto era irregolare oppure liscia.
Quest’ultimo test ha confermato le ipotesi degli sperimentatori: chi aveva maneggiato il portablocco ruvido si dimostrava anche più sensibile e, soprattutto, pronto a “vuotare le tasche”.